Borderline e terapia: perché non funziona? La memoria

Ricordare quello che abbiamo visto, sentito, mangiato, dove abitiamo, il nostro numero di telefono e molti altri particolari è qualcosa che facciamo in automatico, non ci riflettiamo e non ci chiediamo come cambierebbe la vita se questo non accadesse. Quando ci fermiamo a riflettere sulla perdita della memoria pensiamo a malattie neurodegenerative come la demenza senile o l’Alzheimer, non certo ad un disturbo di personalità.
Informazioni:
Nello scorso post di questa serie “Borderline e terapia: perché non funziona?” abbiamo affrontato il tema dell’attenzione (leggi qui), una delle capacità che il disturbo può andare ad intaccare, e oggi ne aggiungiamo un’altra: la memoria.
Una funzione affascinante che non comprende solo il ricordare ma anche l’apprendere (imparare a memoria), il perfezionare (ripetendo una tecnica tante volte), il rivivere qualcosa (riportandolo alla mente) ma anche tornare a casa orientandosi (memoria visuo spaziale) o comunicare, dopo aver formulato un pensiero scegliamo delle parole adeguate per esprimerlo (memoria verbale).
Non è un caso se in terapia si sente dire “non so come spiegare” e che alcuni soggetti si fermano spesso per cercare le ‘parole giuste’. Certo in parte c’è una difficoltà a capire cosa si stia realmente provando per una scarsa conoscenza, specialmente delle emozioni più sfumate o anche perché un’emozione predominante finisce per soffocare le altre, ma non solo.
La collaborazione con un neuropsicologo può aiutare lo psicoterapeuta ad individuare alcune fragilità del soggetto che non dipendono dalla mentalizzazione o dal comportamento e che potrebbero fare la differenza nell’assimilazione dei concetti affrontati in seduta, nella capacità di riutilizzarli e anche nel ricordare di assumere correttamente la terapia farmacologica.
La ragione per la quale stiamo diffondendo questo tipo di informazione è che già da 30 anni si conosce la relazione fra il drop out, cioè l’abbandono della terapia da parte dei pazienti borderline, e i deficit cognitivi (Kroll, 1988). È lo stesso Kroll che evidenzia il circolo vizioso che si innesca a partire dalla difficoltà attentiva che può intaccare la memoria addirittura distorcendola.
Questo non vale solo per la psicoterapia ma anche per l’alto abbandono scolastico da parte degli adolescenti diagnosticati borderline: se gli insegnanti non vengono adeguatamente informati e formati (leggi qui) sul problema finiscono per interpretare le difficoltà di queste persone come pigrizia, svogliatezza, disinteresse.
Due domande sorgono solitamente spontanee a questo punto:
  1. “perché i soggetti borderline hanno questo tipo di difficoltà cognitive?”. La risposta è che le aree del cervello coinvolte in questo tipo di funzione sono le stesse che regolano le emozioni.
  2. “chi ha una difficoltà cognitiva quindi ha anche il disturbo borderline?”, non necessariamente ma è possibile che ne abbia dei tratti o che sviluppi un disturbo in seguito. È dimostrato infatti che i bambini diagnosticati ADHD hanno una possibilità di sviluppare il disturbo borderline, cinque volte maggiore rispetto a quelli che non hanno ricevuto questa stessa diagnosi.
Formazione:
Non possiamo lasciarvi con una serie di nozioni – più o meno ansiogene – senza darvi delle notizie più confortanti. È provato che le terapie strutturate (ad esempio DBT, MBT, GET, GPM) sono efficaci sulle funzioni cognitive e che la mindfulness relazionale utilizzata in questo contesto migliora sensibilmente la memoria.
Alcuni consigli pratici:
  • per i terapeuti: dedicare gli ultimi minuti della seduta alla scrittura, da parte del paziente che ne avesse bisogno, di alcuni appunti e iniziare la seduta successiva rileggendoli (questo consiglio arriva direttamente dal prof. Ruocco).
  • per gli psichiatri: suggerire, in caso ce ne fosse bisogno, l’uso di una di quelle scatole per le pillole con su scritti i giorni della settimana oppure di scaricare un’app su cellulare che aiuti ad assumere correttamente la terapia farmacologica.
  • per i pazienti: ripetere, se potete, quello che è stato detto ad un familiare o una persona di fiducia immediatamente dopo la fine della seduta, in questo modo l’altro diventa parte della vostra stessa memoria e nel momento di disregolazione sarà in grado di aiutarvi ad utilizzare alcune delle strategie suggerite in terapia.
  • per gli insegnanti: se avete in classe uno o più studenti con difficoltà mnemoniche o che vi sembri abbiano problematiche di questo genere, valutate la possibilità di dettare degli appunti man mano che fate lezione. Aiutarli con delle mappe concettuali gioverà a tutta la classe, lli farà sentire più inclusi e contribuirà a rendere la didattica più efficace.

 


Pubblicato

in

da

Tag: