“Mio figlio mente al terapeuta, che devo fare?”

Grazie al nostro gruppo Facebook dedicato ai parenti ma anche agli incontri ai quali siamo invitati o tramite e-mail veniamo in contatto con tanti genitori preoccupati.  Il disturbo borderline crea molta tensione all’interno dei gruppi familiari, nei rapporti genitoriali, in quelli di coppia ma più in generale mina la stabilità di qualunque rapporto interpersonale.
Alcuni di quelli che ci contattano ci presentano questa difficoltà: ascoltano una telefonata con il terapeuta o vanno a colloquio e scoprono di non essere d’accordo con quello che è stato detto in seduta, insomma ritengono che quello che è stato riferito dal figlio sia una bugia.
Quello che succede in seguito si potrebbe sommariamente riassumere in questi tre passaggi:
  1. la prima reazione somiglia un po’ alla scoperta di un tradimento “dice che io non le sono vicino ma è falso”, “non racconta quanto ci fa penare”, “da tutta la colpa a noi ma il vero problema è lei/lui”, “tanto come fai sbagli”
  2.  in un secondo momento ci si sente presi di mira sul piano personale “allora ce l’ha con me”, “sei impossibile solo in casa mentre con gli altri sei un angioletto” ed ecco che arrivano la rabbia, la frustrazione e magari anche il senso di colpa
  3. infine viene il dubbio che il terapeuta non possa aiutare davvero il ragazzo perché non è a conoscenza della verità e quindi ci si chiede se non si dovrebbe parlare direttamente con lui per dare anche la propria versione delle cose
E’ bene iniziare dicendo che ogni reazione è lecita, non c’è un modo giusto e uno sbagliato di soffrire e dispiacersi per la difficoltà con la quale ci si rapporta a questo figlio problematico che da qualche tempo sembra un estraneo, c’è però un modo di affrontare il disturbo risolutivo, quello che passa per la conoscenza profonda della malattia e dei suoi modi e che nel lungo periodo permette di ricostruire il rapporto attraverso l’ascolto e la condivisione.
Per capire meglio cosa stiamo dicendo rispondiamo punto per punto a quelli precedenti:
  1. quando ci si trova nel contesto protetto della seduta individuale il paziente parla a ruota libera di quello che prova. Certamente racconterà anche quello che gli è successo dal suo ultimo appuntamento, dando magari anche un’interpretazione di un fatto che potrebbe essere lontana dal vostro punto di vista e forse anche da come si sono oggettivamente svolti gli eventi, considerate però che non siamo in un’aula di tribunale nella quale bisogna capire chi ha ragione e chi ha torto. Quello di cui si ha bisogno in terapia è di tirare fuori quello che si porta e mentre lo si fa, riuscire a dare un nome e un contesto ai pensieri, proprio come rimettere insieme i piccoli piccoli tasselli di un grosso puzzle.
  2. il disturbo borderline si chiama così, da svariate decine di anni, perché i primi ad essersi cimentati nel suo trattamento non riuscivano a ben collocarlo fra la nevrosi e la psicosi dunque gli hanno messo questo nome che suona molto provvisorio cioè “linea di confine”. Oggi la malattia si conosce molto meglio, si sa che di psicotico non ha nulla (nonostante possa capitare di avere episodi psicotici) e quindi di preferisce chiamarlo disturbo da disregolazione emotiva. Questa lunga premessa per spiegare che difficilmente si avrà una disregolazione nei confronti di qualcosa che non tocca appunto la sfera dell’emozione, dunque se vostro figlio sfoga il suo disturbo più con voi che con altri è proprio perché con voi c’è un legame che con altri semplicemente non esiste. Non è una consolazione perché siamo abituati a pensare che quando si ama si fa il bene dell’altro mentre in questo frangente non ci si sente corrisposti ma provate a pensare per un momento quanto frustrante possa essere amare qualcuno e non riuscire corrispondere!
  3. quest’ultima questione tocca un ambito più tecnico: il terapeuta è preparato a lavorare sull’emozione e non sul fatto in sé. E’ sicuramente in grado di dare suggerimenti pratici per imparare a gestire la crisi e la quotidianità ma lo fa sempre partendo da un punto di vista soggettivo e non oggettivo. Il paziente deve sentirsi prima di tutto ascoltato, capito e poi accompagnato e chi si occupa specificamente di pazienti con diagnosi borderline sa farlo molto bene. Più che parlare direttamente con chi segue vostro figlio dunque sarebbe il caso di contattare qualcuno che faccia gruppi per i genitori. I genitori dei pazienti seguiti al San Raffaele di Milano possono contare su gruppi specifici, per gli altri una buona alternativa è contattare NEA BPD Italia che si occupa proprio di questo e che al momento è attivo nelle città di Fano, Genova, Roma, Ferrara e Milano.       

Pubblicato

in

da

Tag: