Psicofarmaco: la parola che fa paura

Gli psicofarmaci fanno tanta paura, spesso perché nei bugiardini sono descritte lunghe liste di effetti collaterali ma anche perché il messaggio implicito è quello che averne bisogno significa non essere abbastanza forti da farcela da soli, l’assunzione viene quindi interpretata come un segno di debolezza.
Nel caso del DPB c’è un ulteriore difficoltà quella per cui spesso il paziente inizia una lunga trafila alla ricerca del trattamento farmacologico più appropriato finendo, nei casi più gravi, per intossicarsi senza per altro risolvere il problema. Il problema è di approccio: il ricorso al farmaco infatti è solitamente mirato all’arginare una sintomatologia che in questo disturbo è quantomai varia, l’urgenza del paziente e la sensazione di inadeguatezza che porta la famiglia richiedono soluzioni immediate ma che sono raramente risolutive.
Gli psicofarmaci sono medicinali pensati e prescritti per agire sulla chimica del cervello e hanno una lunga storia iniziata negli anni ’50. Per sommi capi possiamo dividerli in categorie, quelle con le quali i pazienti borderline hanno maggiore familiarità sono: antidepressivi, ansiolitici, stabilizzatori dell’umore e antipsicoticiVanno prescritti e assunti sotto stretto controllo medico e con regolarità questo perché il cervello necessita di un periodo di tempo che solitamente va dalle 3 alle 5 settimane per abituarsi ad un farmaco di questo tipo e nei primi tempi si potrebbe verificare un acuirsi della sintomatologia.
Questa prospettiva spaventa non poco, non solo i paziente ma anche i familiari che temono di non saper gestire il malessere: in questi casi rimandiamo ad un precedente articolo riguardo il ricorso al Pronto Soccorso.
Un caso italiano
Il dottor Raffaele Visintini, responsabile del Day Hospital per i disturbi di personalità del San Raffaele Turro di Milano, nel convegno tenutosi nel giugno 2015 a Palazzo Marino, descrive una situazione piuttosto complessa “vediamo un sacco di disastri nel tentativo di trattare un disturbo, quello borderline, che disturba l’ambiente circostante. Solitamente la prima risposta è quella farmacologica: neurolettici a pioggia, un disturbo psicologico viene confuso con un disturbo psichiatrico a causa dei comportamenti messi in atto dal paziente.” I neurolettici di cui parla il dottor Visintini sono gli antipsicotici, come ad esempio il litio che viene impiegato massicciamente nel trattamento del disturbo borderline ma che in realtà è più indicato per il disturbo bipolare.
Un esempio pratico di quello che dice il dottor Visintini lo verifichiamo con mano incontrando Alberto – il nome è di fantasia – visibilmente preoccupato. Ci racconta di avere paura per sua figlia che negli ultimi mesi ha subito un ricovero in una struttura privata dove sono stati modificati i dosaggi dei farmaci che assume e ne sono stati aggiunti di nuovi. “Non so più cosa fare. Abitiamo in una casa su due piani e ho paura a vederla salire e scendere le scale. Magari siamo a cena e all’improvviso sembra come se si spegnesse e cade dalla sedia. Mi sono sempre fidato dei medici, loro sanno cosa fare ma ora non ne sono più sicuro.” Sua figlia Arianna – anche in questo caso il nome è stato modificato per tutelare la privacy della ragazza – è lì di fianco a lui, ascolta, ogni tanto guarda verso di noi, ogni tanto fissa il vuoto davanti a sé. “Voi mi ispirate fiducia perché sapete cosa provo, ci siete passate e lo stesso vale per i medici che ho visto qui al San Raffaele. Una parte di me però continua a temere il peggio: che questo tormento non finirà mai.”
La comunità scientifica
Cosa ne pensa la comunità scientifica? La dottoressa Gabriela Balf durante la sua lezione nel maggio 2013 all’Università di Yale ha insistito molto sull’aggiornamento. Le linee guida alle quali fece riferimento in quella sede erano a suo parere troppo datate (2001), addirittura di dodici anni prima e suggerivano agli psichiatri di trattare farmacologicamente il sintomo compresi sbalzi di umore, sintomi cognitivi, dipendenze, sintomi emotivi ecc. finendo, come mostrava in una delle sue slide, ad avere pazienti con una lista di venti medicinali da assumere quotidianamente.
Sei anni (2007) dopo l’unico “passo avanti” a suo dire era quello di scoraggiare l’uso delle benzodiazepine che oltre a causare dipendenza, molto spesso venivano prese arbitrariamente dai pazienti che finivano per abusarne. La stessa Balf ha dichiarato di avere forti riserve sull’uso di questo tipo di farmaco per gli stessi motivi dichiarati dalla World Federation of Societies of Biological Psychiatry cioè dipendenza e abuso. Sottolineando inoltre che uno di questi farmaci in particolare peggiorerebbe gli episodi di disregolazione emotiva nei pazienti che ne fanno un uso anche controllato.
“In Inghilterra sono perfino più radicali, dicono che i pazienti borderline non andrebbero proprio trattati farmacologicamente né per i sintomi né per i comportamenti legati al disturbo neppure per l’instabilità emotiva o i possibili episodi psicotici. Quindi cosa dovremmo fare noi medici?” dice la Balf in tono polemico. L’ultima revisione di queste linee guida risale al 2010, realizzata tenendo conto di più di 10.000 studi accreditati e dalla presentazione della Balf risultano esserci diversi farmaci adeguati al trattamento del disturbo e con questo si intende che aiutano ad attenuare le sintomatologie più invalidanti permettendo ad paziente di seguire con maggior successo la psicoterapia, oltre che condurre una vita più serena. “C’è uno studio, Gunderson del 2011, che afferma che i terapeuti non prendono volentieri in cura le persone affette da disturbo di personalità borderline.  Ad essere veramente sincera è una notizia che mi è dispiaciuta molto perché a me piace lavorare con i borderline, penso siano premurosi ed estremamente talentuosi. Mi ha fatto male, durante il mio ultimo anno di specializzazione, incontrare personaggi noti del settore, che venivano ad insegnarci come intraprendere una carriera di successo, suggerire di evitare i borderline.”
L’approccio alternativo
La scelta della dottoressa è decisa ma nel senso opposto a quello appena descritto cioè non discriminare il paziente affetto da DPB e di trattarlo come un adulto – testuali parole – mettendo subito in chiaro quali possono essere i pericoli di un abuso o di un’assunzione incostante dei farmaci. Chiarendo anche che i risultati si ottengono nel lungo periodo e che è necessario cominciare per gradi ma sopratutto ascoltando quali sono le priorità del paziente che a questo punto è necessario collabori.
A questo proposito ha analizzato i benefici e gli effetti collaterali dei farmaci a disposizione dandogli un punteggio, sulla base della sua esperienza, in varie aree come ad esempio l’aumento di peso o l’influenza sull’attività sessuale per aiutare il più possibile, chi le si rivolge, a tornare ad una vita appagante.

 


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