Diagnosi: uno strumento per terapeuta e paziente

 Diagnosticare un disturbo di personalità in linea teorica non è né facile né difficile ma come per tutte le cose ci vogliono esperienza e sensibilità. Non basta incontrare il paziente in una seduta e ascoltare un racconto, non basta sapere che è autolesionista o che sente un vuoto esistenziale o che soffre da tanto tempo; anche in questo caso il lavoro è di indagine e si svolge preferibilmente in équipe.
Perché diagnosticare?
Vengono somministrati dei test e vengono poi discussi con il paziente perché per quanto le domande siano accurate ogni persona le leggerà secondo la sua personalissima lente e un professionista scrupoloso non lascerà le conclusioni al caso. Chi si affida ad un professionista lo fa sempre con le migliori intenzioni e con grandi speranze.
È il prof. Anthony Ruocco (Yale, 2013) a dire che nella sua esperienza di ricercatore, le persone con disturbo borderline di personalità sono quelle che ci provano davvero a seguire il percorso proposto. A mentire falsando i risultati sono solitamente gli altri, quelli che sperano di guardagnarci economicamente qualcosa (come da prassi canadese: in Canada infatti arrivano molti pazienti anche dagli Stati Uniti perché è difficile accede alle cure e inoltre a chi si mette a disposizione per la ricerca viene riconosciuto un compenso).
Il test diagnostico di predilezione è lo SCID II, un’intervista diagnostica semi strutturata che prevede di rispondere a diversi test che vengono valutati da uno o più professionisti, discussi appunto col paziente e poi restituiti, cioè viene comunicata la diagnosi a voce. La procedura non può essere evidentemente quella di scegliere di consegnare un unico test specifico al paziente partendo dal presupposto che sia borderline, ad esempio solo lo SCID II ma ci si vedrà probabilmente consegnare un bel plico di fogli da riempire in un momento di calma. Ecco perché sono tanto importanti le interviste successive.
Il terapeuta avrà modo così di approfondire anche altri aspetti particolari.
Per il paziente dunque, questa procedura è garanzia di dedizione da parte di chi lo sta prendendo in carico e anche motivo di maggiore tranquillità perché il risultato sarà più accurato.
L’accuratezza diagnostica
Uno dei maggiori problemi per arrivare ad una diagnosi borderline è purtroppo il mancato uso proprio dello strumento diagnostico da parte dei clinici e la sua errata interpretazione.
I clinici più dei ricercatori sono propensi a diagnosticare senza coinvolgere il paziente nei test e infatti non consegnano alcun genere di questionario (Zimmerman e Mattia 1999). Il risultato di questa scelta è duplice: da un lato il disturbo viene diagnosticato con minore frequenza e dall’altro si creano alcune “bolle”: ad esempio si riscontra esserci un numero statisticamente sospetto di pazienti con la stessa diagnosi nella stessa zona.
L’importanza del risultato
Mesi fa chiedemmo ai nostri lettori di conoscere la storia del loro iter diagnostico per renderci conto di quale percorso gli fosse stato proposto, di quanto tempo gli ci fosse voluto per avere una diagnosi ufficiale, con lo scopo di farci un’idea sull’efficacia della terapia che avevano seguito.
Ebbene, i risultati sono stati tutt’altro che rassicuranti: su 84 persone che hanno risposto, l’81% combatteva con il malessere da più di tre anni, solo il 26,2% ha detto di aver ricevuto la diagnosi fin da subito e le motivazioni per le quali sono stati così tanto tempo nell’incertezza sono:
  1. lo specialista non ha proposto dei test diagnostici (50%)
  2. più specialisti hanno restituito diverse diagnosi (37,1%)
  3. lo specialista era contrario a comunicare la diagnosi (12,9)
Quello che affrontiamo è un grosso tema, ce ne rendiamo conto, ma è importante che i professionisti della salute mentale siano davvero coscienti del fatto che ognuna di queste motivazioni è un passo indietro per il paziente che farà più fatica a prendere coscienza di quale sia il motivo della sua soffernza, uno shock in più per la famiglia che non avrà strumenti per aiutarlo, una fatica per il terapeuta stesso che approccerà il soggetto ignorando delle informazioni fondamentali  ed esponendosi quindi alla frustrazione e al burn-out.
Diagnosi e stigma
Una scuola di pensiero ‘tradizionale’ suggerisce al clinico di tenere i risultati diagnostici per sé per evitare di ‘influenzare’ il paziente: il timore è che quest’ultimo, informandosi autonomamente sul disturbo, metta in atto degli atteggiamenti disfunzionali di proposito, si convinca erroneamente di potersi autocurare su internet o che al contrario una cura efficace non esista o che metta in discussione la linea terapeutica.
Ci sentiamo di sconsigliarvi questo approccio che viene percepito dai pazienti come disonesto e non aiuta ad instaurare un clima di fiducia. Si basa infatti sul presupposto che la diagnosi sia esclusivo appannaggio del clinico: un’oncologo, dunque, prescriverà una cura per una ‘malattia generica’ nel timore che il paziente scelga di ricorrere al metodo Hamer, un pediatra farà un’iniezione ‘preventiva’ ad un bambino nel timore che i genitori possano essere anti vaccinisti.
Le ricerche dell’Università di Toronto Scarborough provano che i pazienti borderline tendono ad avere un QI più alto della media perciò è ancor più importante per loro, nonostante le difficoltà cognitive, spiegarsi il perché sentano determinate cose. Come potrebbero i clinici approcciare correttamente questi pazienti senza metterli al corrente della diagnosi? Sta a loro informarli su cosa sia il disturbo e come si manifesti: sono loro un supporto imprescindibile per eliminare lo stigma e tutti i dubbi che si porta dietro.
È più probabile che si sentano disregolati se non sanno cosa succede e cosa pensate chiaramente di loro e dei loro comportamenti, questo si potrebbe portarli ad abbandonare il percorso o a fare ricerche indiscriminate su internet.
Se un paziente borderline si comporta in maniera impulsiva non sta facendo altro se non mostrarvi quello che prova e ciò con cui deve fare i conti tutti i giorni, come ha detto il dott. Nicolò del Terzo Centro: “un paziente borderline disregolato, che vi provoca non sta facendo altro che il proprio ‘mestiere’ sta al suo terapeuta conoscere a fondo il disturbo e approcciarlo nella maniera corretta”.
 
Conclusioni
Fermo restando che ogni clinico ha la libertà di valutare caso per caso, è importante ricordare i diritti del paziente fra cui quello a “ricevere informazioni comprensibili, accurate e proporzionate sul proprio stato di salute e sulle cure, con modalità tali da favorirne l’accettazione e adatte alla propria condizione psicopatologica.” Credere nel rapporto terapeuta-paziente significa validare la persona in cura e aumentare esponenzialmente le possibilità di recupero.

 


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