“Mia figlia ha abbandonato il percorso terapeutico”, “mio figlio non vuole farsi aiutare”, “la mia compagna ha fatto tanta terapia ma non ha funzionato” poi quell’inevitabile richiesta “cosa posso fare io per convincerlo a provare/riprovare?”. Ogni giorno facciamo i conti con i messaggi di chi vorrebbe credere in una soluzione per il dolore del proprio familiare e ci contatta fiducioso ma un po’ per paura di venire delusi, un po’ per stanchezza, in parte per difficoltà oggettive finisce per cedere e rassegnarsi a quella che sembrerebbe, a tutti gli effetti, una condanna.
Perché tanta resistenza nei confronti della terapia?
Come quasi sempre la risposta non è unica: ad esempio se queste resistenze iniziano dopo le prime fasi del percorso potrebbe esserci una risposta del paziente al fatto che si stanno affrontando temi dolorosi e quasi mai ci si aspetta che la terapia possa provocare quel tipo di scompenso. Se la resistenza si manifesta quando già si è entrati da un po’ nel processo terapeutico invece la motivazione potrebbe essere che si è arrivati ad un nodo importante per il soggetto che cerca di preservare – il più delle volte inconsciamente – l’equilibrio faticosamente raggiunto, altre motivazioni potrebbero essere eventi esterni che provocano un forte stress (traumi, lutti, difficoltà economiche, abbandoni) o l’influenza di terze persone.
Nel presente post però vorremmo affrontare quella resistenza iniziale che non permette neppure di prendere in considerazione l’ipotesi di contattare lo specialista. Andiamo per fasi:
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“non sono mica pazzo” e “vacci tu dallo psichiatra” sono solitamente le risposte di chi riceve il consiglio per la prima volta o di chi reagisce rabbiosamente alla persona che avanza la proposta. Nel primo caso potrebbe non aver ancora interiorizzato il malessere, nel secondo potrebbe portare del rancore verso l’interlocutore magari perché lo ritiene in qualche modo responsabile della situazione o perché si sente giudicato e avverte il peso dell’aspettativa.
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“nessuno mi può aiutare” questo tipo di affermazione presuppone un qualche genere di presa di coscienza rispetto allo stare male, probabilmente la persona in questione ha riflettuto sull’eventualità di rivolgersi ad uno specialista ma teme di affidarsi a quello sbagliato. Potrebbe essere spaventato dell’esito della diagnosi oppure di avere la conferma di essere incurabile.
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“non ho tempo” o “non ho soldi” sono le risposte sulle quali dovrebbero intervenire le istituzioni. Il bacino di pazienti che risponde in questo modo presenta una duplice sfida per i professionisti del settore e dell’amministrazione pubblica: da un lato potrebbero essere le ultime parole di chi interpone un problema concreto tra sé e la terapia – per chiudere definitivamente il discorso – o potrebbero essere l’ostacolo che impedisce ad un paziente che invece lo vorrebbe, di cercare una cura al suo disturbo. Nel primo caso, se si desse la possibilità di accedere al trattamento adeguato attraverso l’aiuto di un SSN più efficiente, il soggetto dovrebbe rivedere la sua posizione e prendersi la responsabilità di non volere aiuto più che di non trovarlo; nel secondo caso si riuscirebbe a sostenere una persona (e di conseguenza una famiglia) che ha bisogno.
Torniamo alla domanda iniziale “perché tanta resistenza nei confronti della terapia?” Questa volta però chiedendoci anche questo: ‘io andrei in terapia?’ e ‘cosa penso quando qualcuno mi dice che va in analisi?’ È da qui infatti che dovrebbe partire l’indagine. Esistono dei pregiudizi nei confronti della psichiatria e delle scienze psicologiche come medicina di serie B e di conseguenza la supponenza e la sfiducia riguardo coloro che vi ricorrono sono la principale spiegazione al rifiuto.
Alcuni assunti sono sociali ancor prima che familiari e se nel corso della vita di una persona è passato il messaggio, anche velato, che psicologo fa rima con pazzo, l’eventualità di ricorrere a questa figura professionale si collegherà ad emozioni come la paura o il disgusto cioè emozioni percepite come negative: la risposta non potrà essere che quella al punto 1.
Quando proviamo paura o disgusto verso qualcosa o qualcuno la evitiamo, quel qualcosa o qualcuno diventa automaticamente un emarginato e chi vorrebbe mettersi da solo nella posizione di venire emarginato? L’uomo è animale sociale e chi soffre di BPD – a parte una certa casistica – lo è ancora di più ma è anche più vulnerabile all’abbandono perciò la reazione alla possibilità dell’emarginazione è ancora più decisa.
Per comprendere queste persone dobbiamo tenere presente che il naturale e umano bisogno di appartenenza, in loro è in costante conflitto con il sentimento di indegnità e vergogna. Necessitare di una terapia significa inoltre modificare fortemente i ritmi di vita e questo provoca facilmente una crisi, pensate a quanto si sentano più vulnerabili durante le festività o nel fine settimana ad esempio, questi due aspetti messi insieme non rendono più semplice affrontare la terapia.
Alla luce di tutto questo: cosa dire?
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Partite da una risposta: la risposta che vi siete dati, voi per primi, alle domande di cui sopra (‘io andrei in terapia’ e ‘cosa penso quando qualcuno mi dice che va in analisi?’) a cominciare da qui create già una condizione favorevole al dialogo perché vi siete messi nei panni dell’altro. Sarà molto più facile sentire le emozioni e i timori che l’altro sente e anche se non avrete una risposta immediata vi sarete permessi di intavolare una discussione.
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Non cercate di convincere l’altra persona parlando tutti i giorni di terapia, rispettate invece i suoi tempi invece ma quando sarà il momento ripetete con sicurezza e serenità che voi lo/la appoggereste sempre nel percorso.
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Informatevi il più possibile e create una rete di aiuto, cercate dei professionisti che siano disposti a sostenervi (guardate alla pagina siti amici)e cercate dei gruppi per familiari vicini alla vostra zona, contattate NEA.BPD Italia a questo proposito e se sentite di averne necessità contattate voi per primi uno specialista che vi segua.
Non è facile ma la strada per un miglioramento reale della vita del vostro caro, vostra e più in generale di tutto il contesto familiare comincia proprio da qui.