Piangere è un diritto che nessuno dovrebbe togliervi

 Nel secolo del dimostrare più che del fare e del sembrare più che dell’essere, piangere fa rima con debolezza, stare male sembra essere delittuoso e ribellarsi all’ordine costituito diventa un affronto. Succede a tutti, lo facciamo in automatico ma non dobbiamo dirlo altrimenti ci trasformiamo in un problema da risolvere.
La società odierna censura l’emotività relegandola ad alcuni specifici ambiti dai quali non dovrebbe uscire come ad esempio il cinema, e la tollera (e anche male) solo se collegata al genere femminile che guarda caso è quello che ha maggiore familiarità con le cure mentali ed è più frequentemente diagnosticato borderline.
Chi conosce un po’ la cultura classica sa che gli intellettuali hanno sempre pianto molto e non solo non se ne vergognavano ma ne facevano quasi un vanto, era un punto di forza riuscire a connettersi con quell’universo parallelo dei sentimenti e sapergli dare voce. Da Catullo a Dante, da Foscolo a Alda Merini, per accennare solo alla poesia, e non trattavano esclusivamente di argomenti amorosi ma anche la frustrazione della decadenza morale, la politica, il rapporto con la natura perché tutto ciò che riguarda l’uomo – anche l’argomento apparentemente più freddo e razionale – trova appiglio nella più imprevedibile reazione emotiva.
Piangere fa bene
Ci sono fior di studi che dimostrano l’importanza del pianto e della lacrimazione, non solo sul piano emotivo ma anche quello puramente meccanico eppure continua ad essere un tabù. Bisogna dimostrarsi forti e felici, frizzanti, belli, risolti, autosufficienti, limitando le vulnerabilità a pochi soggetti sceltissimi e preferibilmente in contesti defilati. Il giudizio al quale è sottoposto chiunque si aspetti di essere se stesso in maniera diversa da come proposto, pesa come un macigno. Il risultato è una lotta di tutti contro tutti. Ma quali sono le conseguenze del trattenere il pianto?
Nelle serie tv alcune modalità di sfogo sono permesse ma non si possono riproporre quelle stesse modalità nella vita vera, il perché è un mistero. Nella finzione possiamo trattare più o meno tutti gli argomenti possibili, prendiamo per esempio “Tredici” la serie Netflix che parla di suicidio o la nuovissima “Fino all’osso” che tratta di anoressia: è vero, sono state entrambe criticatissime ma hanno avuto un successo enorme. Solo per il ritorno mediatico di temi forti? Io non credo. La verità è che c’è una grande necessità di scoperchiare questo vaso di Pandora – che ormai sembra più un secchione dell’immondizia – nel quale viene relegata tutta quella sfera dell’umano che non ci piace, ci fa paura.
Abbiamo paura della vita ‘vera’
Una certa frangia di terapeuti ha paura di questa divulgazione, credono che potrebbe influenzare delle menti fragili e portarle su una strada pericolosa: quella dell’emulazione. Ma non è un punto di vista concentrato solo sull’arginare i comportamenti estremi? E chi invece ha bisogno di sentirsi validato, riconosciuto, guidato? Se non si danno degli strumenti non si fa un danno molto maggiore?
Non affrontare la realtà nel suo contesto cioè quello della vita ‘vera’, finisce per caricare le storie di finzione di tutto il carico emotivo e i protagonisti di questi racconti televisivi moderni diventano i nostri alter ego (se loro si sono sfogati allora siamo un po’ più leggeri pure noi). Bello, no? Per niente.
Non funziona affatto così, loro possono ripetere la scena infinite volte, venire truccati per sembrare brutti e ingrassare per copione, a casa non si cambia vita come al cinema cambiano inquadratura. La bruttezza rimane tale finché il corpo non recupera il sonno e i nutrienti, la calma non si ripristina finché i livelli degli ormoni dello stress nel sangue non si abbassano e le piaghe emotive se toccate, anche solo sfiorate, tornano a far male.
 
Non sarebbe meglio insegnare alle nuove generazioni che essere umani fa rima con l’essere emotivi e che invece di considerarci tutti come dei treni sui binari abbracciassimo il nostro istinto senza esserne terrorizzati?
La vita vera procede più lentamente di un film nel quale bisogna concentrare una storia di vita intera in un’ora e mezza durante la quale non si possono sfogliare tutti i risvolti emotivi di una determinata situazione. Se da un lato mentalizzare alcuni stati grazie al piccolo o al grande schermo, ha i suoi risvolti positivi, non può bastare.
Quello delle serie televisive o dei film è solo un esempio ma la stessa cosa vale per il rapporto con internet e i social, questa ricerca affannosa di contenuti che diano risposte immediate alimenta l’urgenza. Facebook e Google, gli smartphone ci hanno abituati a pensare che possiamo raggiungere chiunque e avere tutte le risposte in un battito di ciglia. Se anche fosse vero è passato un messaggio scorretto perché alla risposta non corrisponde la soluzione. Per quella ci vuole più tempo ed ecco perché la realtà fa paura perché il tempo non è soggetto alle nostre regole, piuttosto il contrario.
Permettiamoci di comunicare i nostri bisogni
I bambini comunicano i loro bisogni piangendo, lo fanno naturalmente, e funziona benissimo. Quando sono frustrati o arrabbiati, hanno le loro belle crisi isteriche e una volta esaurito è tutto passato. È il genitore che non riesce a sostenere questo pianto e gli inculca la fretta della risoluzione,  si crea così il collegamento che il pianto è un problema che va risolto e il prima possibile, peccato che nessuno abbia spiegato al piccolo essere umano in formazione che il pianto è una semplice conseguenza di un sentito emotivo. A quanti diagnosticati borderline è successo di venire pressati dall’urgenza di non farsi venire l’ennesima crisi? Non mettere in atto atteggiamenti disfunzionali? Fermare l’acqua quando avevano già ceduto gli argini?
Sì perché per una persona che non abbia ricevuto questa diagnosi è incomprensibile pensare che si possa sentire il bisogno fisico della crisi. Non è piacevole ma è come un parto: provate a dire a una donna a completa dilatazione di non spingere e vediamo cosa vi risponde! In quel contesto nessuno si sognerebbe di dire che la spinta è un capriccio e che deve trattenersi, o che è un modo sbagliato di mettere al mondo un figlio. Perché allora piangere dovrebbe essere un capriccio, dovrebbe essere sbagliato? Non è la spinta (o il pianto) il problema – se vogliamo leggerla in questi termini – le condizioni per arrivare a quel punto si sono innescate molto tempo prima: quella che si vede è solo la punta dell’iceberg.
Ecco che, guardandola in questo modo, la reazione si mette in prospettiva, ed è una prospettiva nuova, completamente diversa. Piangere è un po’ come partorire l’emozione, se lo accettiamo e lo riconosciamo non porta con se strascichi, se al contrario lo rifiutiamo e lo giudichiamo ci mettiamo nella condizione di rifiutare anche tutto quello che ne consegue.
 
E quando le emozioni sfuggono di mano?
Quando piangiamo ci stiamo validando: permettiamo cioè a noi stessi di avere delle emozioni e che fluiscano anche quando non abbiamo una spiegazione. A seconda della difficoltà che stiamo affrontando in un certo momento avremo bisogno di indulgere nel pianto di più o di meno ma come facciamo a riconoscere che la situazione ha bisogno di un’attenzione particolare?
  • Quando la situazione di malessere dura più di tre settimane consecutive
  • Quando non riusciamo più ad avere una quotidianità regolare (ad esempio non riusciamo ad andare a scuola, a lavorare…)
  • Quando il ritmo sonno-veglia viene fortemente compromesso
Se è la prima volta che riscontrate difficoltà di questo tipo:
  • Contattate il vostro medico di base, se vi dovesse prescrivere delle analisi che non daranno riscontro chiedete un’impegnativa per una visita psichiatrica
  • Cercate il più possibile di mantenere la calma e nell’attesa della visita specialistica cercate di riposare ogni volta che ne avete bisogno
  • Scegliete qualcuno con il quale aprirvi, qualcuno che vi ascolti. Sarà più facile portare questo carico in due!
  • Non cedete ai sensi di colpa: 1 persona su 4 nel corso della sua vita avrà a che fare con il malessere psicologico. Non siete né sbagliati né deboli.
PIANGERE TANTO È MEGLIO CHE NON PIANGERE AFFATTO! Quest’ultima alternativa è decisamente più preoccupante.

 


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