“Vorrei ma non riesco”: la paura di fallire

Nel corso della terapia, sopratutto quando dopo aver acquisito un po’ di consapevolezza, si riesce a gestire alcuni degli atteggiamenti più disfunzionali, si può iniziare a rimettere insieme i pezzi della propria quotidianità. E’ in questi frangenti che ci si trova a sbattere la testa contro il muro del fallimento.
Se prima per non fare i conti con la sensazione di “aver sbagliato” e quindi con il senso di colpa per aver fallito, si preferiva evitare le sfide, a questo punto si riesce a vedere cosa c’è dietro all’evitamento e il giudizio verso se stessi diventa ancora più tranciante.
Capita di sentirlo dire spesso dai ragazzi che non riescono a frequentare l’Università, che lasciano la scuola, che hanno paura di inviare un curriculum, che non riescono a sostenere un colloquio di lavoro.
Di solito sono persone molto intelligenti ma che non se lo riconoscono, che avvertono la pressione sociale ma si sentono in qualche modo castrati dal loro stesso sentire, da quella che spesso derubricano come mancanza di volontà. Entra prepotente il tema del giudizio: “se fossi più intelligente”, “se mi fossi impegnato di più”, “se avessi scelto un altro percorso” e si può andare avanti.
Il giudizio in questo frangente tende ad avere due conseguenze:
  • da un lato blocca ogni iniziativa
  • dall’altro dà l’illusione del controllo
Le iniziative vengono bloccate perché fermandosi al giudizio non si arriva a conoscenza delle ragioni profonde che spingono a rifuggire una determinata situazione, in sostanza ci si boicotta da soli; si mantiene l’illusione del controllo perché – semplificando – si pensa che se si avrà la forza di reagire al perché di quel giudizio allora magicamente ci si trasformerà nel “me stesso di successo” e i problemi svaniranno così come sono arrivati.
Cosa fare allora quando il nostro presente è messo in così forte discussione perché non si riesce a fare quel “qualcosa”? Bisogna iniziare dall’ammettere che la difficoltà è nell’ambito dell’autostima.
Facilmente si rimane ancorati all’idea del “me stesso passato” quello più imprevedibile perché più fragile e vulnerabile e anche il contesto sociale tende a identificare la persona con quello che di quella persona ha conosciuto. L’essere umano però è un progetto in continua evoluzione e come tale va interpretato, dunque immaginando se stessi come una materia scolastica bisognerebbe avere la forza di non smettere di approfondire e quando non ci capisce qualcosa, di chiedere.
Per concludere la paura del fallimento non va giudicata ma piuttosto capita, la terapia in questo frangente gioca un ruolo fondamentale; un altro fattore da non sottovalutare è quello del tempo, mettersi fretta è controproducente. Come nella preparazione di una torta bisogna aspettare la lievitazione così nella costruzione dell’identità bisogna aspettare di raggiungere la fiducia nelle proprie capacità.

 


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