Diagnosi e ricerca i talloni d’Achille dei terapeuti italiani. Quattro chiacchiere con Cesare Maffei.

Cesare Maffei è il Direttore del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoterapia del Dipartimento di Scienze Neuropsichiche dell’Ospedale San Raffaele-Turro di Milano, lo vedevo di sfuggita ogni tanto quando andavo ai gruppi a Turro ma non era il mio terapeuta. Ha una figura che avrei definito ‘normale’, uno che se lo incontri per strada non pensi sia uno psichiatra o uno importante.
Il suo studio, al primo piano di una delle palazzine di Ville Turro, è stretto e lungo. Due scrivanie, una libreria con la vetrina, un mobile chiuso e una quantità di piante. Tante, tantissime che sembra di stare in un vivaio. Ci chiama e io e Chiara, la nostra fotografa, entriamo. Stretta di mano, brevi saluti, ci sediamo dove ci piace e iniziamo a parlare.

Un paio di settimane fa mi hai detto una cosa che mi è rimasta in testa e ho pensato che fosse il caso di condividerla. Hai detto che una delle cose che ti da più fastidio è sentir parlare i tuoi colleghi di ‘pazienti difficili’ riferendosi ai pazienti con disturbo borderline è stato molto validante.
‘Pazienti difficili’ non vuol dire niente. È una mezza verità. Se si parla di pazienti difficili bisogna precisare che sono difficili, se proprio vogliamo usare questa parola che rischia comunque di essere una etichetta giudicante, rispetto al trattamento messo in atto. La domanda che dobbiamo porci come clinici riguarda quindi l’adeguatezza del trattamento rispetto al paziente e la nostra capacità di applicare correttamente il trattamento stesso. In altri termini, è un nostro dovere avere chiaro se stiamo seguendo linee guida chiare e su che cosa esse si basino, a partire dalle evidenze di ricerca.

I pazienti con disturbo borderline sono i pazienti che spaventano di più i terapeuti e molti di loro non hanno idea di come trattarlo. Il 75% si taglia, il 10% commette suicidio e le reazioni sono esplosive, ecco cosa rende i pazienti borderline così ostici. (TIME, 2009) 

Essendo una comunità, voi terapeuti, non dovreste condividerle le linee guida? Voglio dire, i dati degli studi sono pubblicati sulle riviste scientifiche, non dovreste conoscerli tutti?
Un giorno ho chiesto a un collega come curassero il disturbo borderline nella loro città e mi è stato risposto che dipendeva da chi ti prendeva in carico. Questo non è accettabile, come non è accettabile che in certe regioni si diagnostichi quasi sempre un disturbo e quasi mai un altro.

La questione della diagnostica è enorme, me ne sono resa conto sulla mia pelle e ce lo racconta anche chi ci scrive. A me ci sono voluti dodici anni per avere la diagnosi e se considero quanto poco ci ha messo la terapia a fare effetto – a paragone di quanto ho aspettato – direi che ci ho rimesso parecchio. Racconto spesso che sapere di avere il disturbo borderline era stato un grande sollievo anche se ero comunque molto spaventata. Cosa ne pensi del fatto che molti terapeuti non vogliono diagnosticare o peggio che si rifiutano di restituire la diagnosi?
Parlando di disturbo borderline, mi chiedo quale sia il senso di prendere in carico un paziente se non gli si chiarisce il motivo per il quale è stato preso in carico. È un diritto del paziente quello di sapere il motivo per il quale sta prendendo un farmaco o gli stanno somministrando un trattamento ed è un dovere del terapeuta quello di spiegarsi. Il senso di restituire la diagnosi è proprio questo. Io non dico ‘hai il disturbo borderline’ e basta. Qui al San Raffaele applichiamo una procedura diagnostica standardizzata composta da colloqui e test validati proprio per avere il massimo della certezza possibile con gli strumenti attualmente a disposizione prima di dare una risposta, ma la risposta va data. Quando si restituisce la diagnosi al paziente si dice ‘sulla base delle mie conoscenze, che non sono soltanto la mia soggettività, io ho capito questo della tua personalità’ e lo si spiega a fondo, il più a fondo possibile e poi si suggeriscono dei possibili approcci che, ovviamente secondo noi, sono i più efficaci. Sia la diagnosi che la terapia hanno fondamento scientifico, siamo in grado di dire perché pensiamo che funzionerà. E’ fondamentale che il paziente venga informato correttamente e che gli venga data la possibilità di scegliere di aderire al trattamento in maniera consapevole. Esattamente come nel consenso informato in medicina. Credo che molte difficoltà nel trattamento dei pazienti borderline siano state, e siano, generate da noi clinici. Da un atteggiamento invalidante e stigmatizzante nei loro confronti, penso inconsapevole. D’altra parte, quando si ha una responsabilità e si è in difficoltà, il rischio è di scaricarne la colpa sull’altro. E’umano, ma inammissibile professionalmente.

Personalmente trovo molto più stigmatizzante il fatto che il terapeuta non si fidi a restituirmi la diagnosi del rischio di ricevere un’etichetta. 
Se ti spiego la diagnosi non è più un’etichetta. Quello diventa proprio il momento in cui si gettano le basi del rapporto tra terapeuta e paziente, due figure che lavorano insieme non una che dice e l’altra che fa.

Mi viene in mente il caso di una mamma che ci ha scritto distrutta, dopo il tentativo di suicidio da parte della figlia che aveva ingerito un liquido velenoso. Lo psichiatra di riferimento le ha prescritto una quantità di farmaci tale da costringere questa mamma a far rivedere i dosaggi al terapeuta. Ci chiedeva cosa fare perché vicino casa sua non esiste nulla si specifico, nessuno sa indirizzarla e comunque continuano a ripeterle di rassegnarsi.
Anche su questo: se uno psichiatra mi dice che non c’è nulla da fare è perché non conosce la letteratura scientifica sull’argomento, è lui a non sapere cosa fare. Qualcuno se la prenderà ma in Italia facciamo troppe parole e poca ricerca, a discapito dei pazienti. Siamo passati da un’assistenza psichiatrica regolata da una legge di polizia alla legge Basaglia senza che ci fosse nulla nel mezzo, in pratica dal carretto all’astronave. In Italia la psichiatria, per troppo tempo, è stata la scelta di serie B rispetto alla neurologia e gli psichiatri erano come delle isole, ognuno con i suoi metodi, con la sua scuola di appartenenza. Poi siamo saliti tutti sul carro del DSM! Questo vale anche per la psicoterapia: che cosa ha prodotto il nostro Paese di originale?

Ma la questione farmacologica?
La questione farmacologica è figlia di questa impostazione che ignora la ricerca scientifica e che pensa di curare il paziente intervenendo sui sintomi. Quindi ti do un farmaco per l’ansia, uno per l’impulsività, uno per la depressione e finiscono per arrivarci dei pazienti che prima di poterli inserire in trattamento dobbiamo prima ricoverarli e disintossicarli.

Quello che dici è scoraggiante. Come si fa a cambiare rotta? Ad avere terapeuti più aggiornati e linee guida comuni? Al momento sembra che parliate lingue diverse. 
Si fa come stiamo facendo ad esempio con la SIDBT – la Società Italiana DBT – della quale sono Presidente e che forma team di terapeuti che saranno in grado di trattare adeguatamente il disturbo. È un percorso lento e faticoso ma funziona. Siamo inseriti in un network internazionale, quello del Linehan Institute/BTECH che ha definito i criteri per la formazione dei terapeuti e le procedure di controllo di qualità della formazione stessa. Vuol dire applicare davvero i principi dei trattamenti evidence-based.


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Commenti

8 risposte a “Diagnosi e ricerca i talloni d’Achille dei terapeuti italiani. Quattro chiacchiere con Cesare Maffei.”

  1. Avatar Marina De Rose
    Marina De Rose

    Salve, vorrei fare una domanda. Mio marito è stato un uomo meraviglioso per 23 anni, stabile, vitale, mi ha amata e rispettata. Poi…a 48 anni, improvvisamente, la distruzione, tre anni di inferno, di fughe e ritorni, di inganni, attacchi, ambivalenza…quattro cambi di domicilio, due separazioni, mi ha rinnegata e non.ha più nemmeno consapevolezza del nostro passato. Non sono riuscita ad aiutarlo, non me lo ha permesso. Ora mi odia ma ogni tanto mi scrive, e mi destabilizza. Non lo riconosco, la sua metamorfosi mi ha traumatizzata dopo quasi quattro anni la mia ferita è ancora aperta. Non lo odio, ne ho pena, ma la violenza psicologica che mi ha fatto è stata lacerante. Vorrei fare pace con questo mio dolore inconsolabile. È meglio provare ad essergli amica o è meglio che lui pensi di me ciò che gli ho detto l’ultima volta, ossia che se mi manda un altro solo dei suoi messaggi molesti lo denuncio? Grazie

    1. Avatar Redazione
      Redazione

      Onestamente Marina, se ti dessi un consiglio sarebbe solo una mia opinione. Questo sito non è gestito da psicoterapeuti e anche se lo fosse dubito che sarebbe etico darti un parere del genere. Mi dispiace tanto che tu abbia dovuto vivere questa esperienza destabilizzante… Prova a parlare con qualcuno di più esperto. Un abbraccio!

  2. Avatar Roberta Colla
    Roberta Colla

    Ho una figlia di 16 anni che da quando ne ha 13 ha iniziato ad avere sintomi borderline con autolesionismo, tentativi di fuga, idee suicidare, scatti di ira, ritiro sociale, bassissima autostima. La situazione è degenerata nel giro di poco. Sono 2 anni e 8 mesi che è in comunità ma siamo ancora in alto mare. Vorrei sapere se in Piemonte c’è qualche specialista.

  3. Avatar Anna martino
    Anna martino

    Buongiorno, dopo anni di sofferenza, finalmente hanno diagnosticato a nostra figlia in disturbo borderline. Condivido la rabbia e la frustrazione nell’aver a che fare con medici ignoranti e burocrati. Sono felice di aver trovato questo sito dove potermi confrontare con voi e magari poter dare un contributo . Anna

  4. Avatar Patrizia
    Patrizia

    Ora mia figlia, 17 e mezzo fa dei colloqui con un burocrate del Csm di Napoli, che a mio avviso non fa un aggiornamento da anni. Non mi lascia essere presente ai colloqui , ma io non mi fido di lui . So però che se mi oppongo o chiedo qualcosa di più, mi manderanno via da lì, perché è quello che vogliono probabilmente. Sono in guerra .

  5. Avatar Cristina Persoglia
    Cristina Persoglia

    Mio figlio non vuole nemmeno più farsi curare, non vede vie d,’uscita e qui in Friuli non esistono psicoterapeuti che praticano la DBT o reparti che seguono pazienti con questi.problemi.siamo abbandonati a noi stessi, come famiglia ci sentiamo molto soli. Non riusciamo nemmeno ad avere indicazioni i consigli da nessuno.

  6. Avatar Vincenza
    Vincenza

    Se penso alla frase che il direttore del reparto di psichiatria ha dato in risposta alla mia perplessità sul fatto che mio figlio venisse dimesso dopo solo due giorni di ricovero…Signora, suo figlio è affetto da un disturbo di personalità borderline e il disturbo non si cura…mi viene da pensare che di strada bisogna farne ancora tanta

    1. Avatar Redazione
      Redazione

      Hai ragione Vincenza, un passo per volta ma passi svelti!